IL TRIBUNALE REGIONALE DI GIUSTIZIA AMMINISTRATIVA DI TRENTO 
 
 
                           (Sezione unica) 
 
    Ha pronunciato  la  presente  ordinanza  sul  ricorso  numero  di
registro generale 1 del  2018,  proposto  da  V.P.,  rappresentato  e
difeso dall'avvocato Zeno Perinelli, presso lo  stesso  elettivamente
domiciliato in Trento, via Grazioli n. 11 e  con  domicilio  digitale
come da PEC da Registri di Giustizia n. 11; 
    Contro Ministero dell'interno, in persona del Ministro in carica,
rappresentato e  difeso  dall'Avvocatura  distrettuale  dello  Stato,
domiciliataria in Trento, largo Porta Nuova n. 9; 
    Questura  di  Trento,  in  persona  del   questore   in   carica,
rappresentata e  difesa  dall'Avvocatura  distrettuale  dello  Stato,
domicilitataria in Trento, largo Porta Nuova n. 9; 
    Per  l'annullamento  della  nota  del  Ministero  dell'interno  -
dipartimento di pubblica sicurezza richiamata nella comunicazione del
servizio lavoro della Provincia Autonoma di Trento (prot. n.  996  di
data 11 gennaio 2008); 
    Nonche' per la condanna della questura di Trento e del  Ministero
dell'interno a risarcire in solido il danno patrimoniale a titolo  di
lucro cessante/mancato guadagno nella misura di euro  40.000,  ovvero
di quell'importo maggiore o minore che risultera' di  giustizia,  con
aggiunta di interessi e rivalutazione monetaria dal giorno del dovuto
al saldo; 
    Visti il ricorso e i relativi allegati; 
    Visti tutti gli atti della causa; 
    Visti  gli  atti  di  costituzione  in  giudizio  del   Ministero
dell'interno - Questura di Trento; 
    Relatore nell'udienza pubblica del giorno 27  settembre  2018  il
consigliere Paolo Devigili e uditi l'avvocato Zeno Perinelli  per  il
ricorrente  e  l'avvocato  Dario  Bellisario  per   l'amministrazione
resistente; 
 
                              In fatto 
 
    Il ricorrente V. P., nato in Brasile e  discendente  diretto  del
signor D. C. P., nato in provincia di Trento nel 1852 ed emigrato  in
Brasile prima del 1920, espone di  essere  entrato  in  Italia  il  6
giugno 2005, usufruendo del  permesso  di  soggiorno  per  attesa  di
cittadinanza previsto dall'art. 11 del decreto del  Presidente  della
Repubblica 3 novembre 1999, n. 394, rilasciato il 14  giugno  2005  e
avviato ai sensi della legge 14 dicembre 2000, n. 379. 
    Ottenuta la residenza  in  ...  ,  il  ricorrente  si  e'  sempre
impegnato in varie occupazioni a  tempo  determinato  presso  aziende
locali, fino a quando l'ultima occupazione in qualita' di  bracciante
agricolo e' stata interrotta in data 15  novembre  2008  per  effetto
della nota dell'11  gennaio  2008  della  Provincia  di  Trento  che,
recependo quanto  rappresentato  dal  Ministero  dell'interno  il  12
settembre 2007 in risposta al quesito posto  dalla  locale  Questura,
concludeva nel senso che «sulla base  della  legislazione  attuale  i
cittadini di origine italiana titolari di permesso di  soggiorno  per
attesa  cittadinanza  non  sono  abilitati   a   svolgere   attivita'
lavorativa». 
    Detta  nota  ministeriale  comportava,  infatti,  la   cessazione
dell'efficacia del protocollo d'intesa stipulato il  12  giugno  2007
tra la Provincia Autonoma e la Questura di Trento, che consentiva  di
svolgere attivita' lavorativa  a  tali  soggetti,  e  il  conseguente
divieto di lavoro a far data dal 12 gennaio 2008,  giorno  successivo
alla comunicazione della citata nota della provincia. 
    Per  ottenere  il  risarcimento  del   danno   causatogli   dalla
impossibilita' di svolgere qualsiasi  attivita'  lavorativa  fino  al
2012, anno in cui ha ottenuto la cittadinanza  italiana  (avendo  nel
frattempo  percepito  il  sostegno  economico  versato   dall'agenzia
provinciale per l'assistenza  e  la  previdenza  integrativa  per  un
totale di 3.252 euro), il  ricorrente  si  e'  rivolto  con  atto  di
citazione del 18 luglio 2014 al  Tribunale  di  Trento  che,  con  la
sentenza 5 maggio 2017, n. 444, passata in giudicato, ha declinato la
propria giurisdizione a favore di quella del giudice amministrativo. 
    Con il ricorso oggi in esame il  signor P.  ripropone  quindi  la
domanda di risarcimento del danno patito per la forzosa inattivita' e
la mancata percezione di qualsiasi reddito, nella  misura  di  40.000
euro, con interessi e rivalutazione monetaria. 
    Si  e'  costituito  per  resistere  il  Ministero   dell'interno,
eccependo l'irricevibilita'  e  l'inammissibilita'  del  ricorso  qui
trasposto e  sottolineandone  l'infondatezza,  dato  che  il  sistema
attuale, e in particolare il decreto del Presidente della  Repubblica
n. 394 del 1999, non prevede la conversione del permesso di soggiorno
di cui trattasi in altro che  consenta  l'espletamento  di  attivita'
lavorativa. 
    Chiamato  all'udienza  odierna,  il  ricorso,  dopo  l'esecuzione
dell'istruttoria disposta dal Tribunale  con  l'ordinanza  14  maggio
2018, n. 106, e' passato in decisione. 
 
                             In diritto 
 
Le questioni preliminari. 
    Prima di affrontare il merito del ricorso, qui trasposto in forza
della traslatio iudicii disposta  dal  Tribunale  di  Trento  con  la
citata sentenza n. 444 del 2017, passata in giudicato il 5  settembre
2017, occorre verificarne la ricevibilita' e l'ammissibilita'. 
    Tale preliminare verifica coinvolge due aspetti: l'ammissibilita'
di   una   domanda   puramente   risarcitoria   posta   al    giudice
amministrativo,  in  carenza  di  tempestiva  impugnazione  dell'atto
lesivo;  la  ricevibilita'  temporale  della  stessa,  ove   ritenuta
ammissibile, sia in se'  considerata,  sia  per  quanto  riguarda  le
singole, specifiche fattispecie di  lesione  dedotte  in  causa,  con
riferimento al connesso sistema di decadenze e di prescrizioni. 
    I) Per quanto riguarda il  primo  aspetto,  va  sottolineato  che
l'ammissibilita' della domanda rivolta al giudice amministrativo  per
ottenere il risarcimento della lesione dell'interesse legittimo senza
la previa richiesta di annullamento della determinazione causativa di
tale lesione (qui rappresentata dalle note ministeriale e provinciale
richiamate  in  fatto)  e'  stata   da   tempo   riconosciuta   dalla
giurisprudenza, a partire dalla sentenza dell'adunanza  plenaria  del
Consiglio  di  Stato  23  marzo  2011,  n.  3,  e  ha  trovato   oggi
codificazione nell'art. 30 del codice  del  processo  amministrativo.
Non puo' quindi essere revocato in dubbio che  questo  giudice  possa
conoscere della domanda risarcitoria posta con il ricorso. 
    II) Quanto al (connesso) secondo aspetto, che  coinvolge  profili
attinenti  alla  tempestivita'  della  domanda,   vale   innanzitutto
rilevare come la salvezza delle preclusioni e delle decadenze sancita
dall'art. 11 del codice del processo in caso di traslatio iudicii non
vale ad attribuire, nella fattispecie in esame, effetto preclusivo al
citato art. 30 comma 3, contrariamente a quanto  sostiene  la  difesa
resistente. E' principio consolidato, e condiviso dal Collegio,  (per
tutte,  Consiglio  di  Stato  sez.  III  n.  297/2014  e  sez.  V  n.
6296/2011), che  il  termine  di  decadenza  di  120  giorni  per  la
proposizione della domanda risarcitoria, ora previsto dalla  suddetta
norma, non e' applicabile a cause, ancorche' proposte  nella  vigenza
del c.p.a., che assumano a loro presupposto vicende (come nel caso di
specie: 12 settembre 2007, nota negativa del  Ministero;  11  gennaio
2008, nota della provincia) antecedenti  all'entrata  in  vigore  del
codice:  in  tali  casi  l'azione  risarcitoria  viene  espressamente
assoggettata solo al  termine  di  prescrizione  quinquennale,  fatta
peraltro salva, come gia'  previsto  dalla  giurisprudenza  formatasi
pre-codice, ossia prima dell'introduzione dell'art. 30, il  principio
della congrua valutazione, da parte del giudice, della rilevanza  del
comportamento negligente dell'interessato che non  ha  provveduto  ad
impugnare  il  provvedimento   negativo   ne'   ha   attuato   rimedi
stragiudiziali protesi ad evitare il danno o comunque a limitarne  le
conseguenze. Comportamento negligente che qui non e' dato riscontare,
avendo l'interessato tempestivamente proposto, sia  pure  al  diverso
giudice, la domanda risarcitoria. 
    III) Essendo, quindi, l'azione risarcitoria assoggettata solo  al
termine di prescrizione quinquennale, l'azione qui in esame  mantiene
la  propria  attualita',   essendosi   interrotta   la   prescrizione
quinquennale  (unico   termine   applicabile)   per   effetto   della
notificazione (18 luglio 2014) dell'atto  di  citazione  introduttivo
del giudizio civile, contenente la domanda risarcitoria formulata  in
via  autonoma.  Tale  interruzione  ha  conservato  effetti  con   la
riassunzione, avvenuta rispettando le modalita'  ed  i  termini  gia'
indicati dall'art. 59 della legge 18 giugno 2009, n.  69,  riprodotto
dall'art. 11 del codice, posta  la  salvezza  degli  effetti  che  la
domanda avrebbe prodotto se il giudice di cui e' stata dichiarata  la
giurisdizione fosse stato  adito  fin  dall'instaurazione  del  primo
giudizio,  (in  contrario  non  vale  l'ulteriore  locuzione   «ferme
restando le preclusioni e le decadenze intervenute», dato  che,  come
si e' detto, nessuna decadenza puo' ritenersi collegata alla  mancata
tempestiva impugnazione dei provvedimenti lesivi, come  sopra  si  e'
detto). 
    IV) Il ricorso e' riferito ai danni patiti dal  12  gennaio  2008
(data in cui il ricorrente ha perso il lavoro, per effetto della nota
negativa  del  Ministero  e  della  comunicazione  della  conseguente
inoperativita' del protocollo d'intesa in precedenza stipulato tra la
provincia e la questura) fino al  2012,  anno  in  cui,  ottenuta  la
cittadinanza, il signor P. ha potuto riprendere a lavorare,  come  da
lui  stesso  riferito.  Per  il  periodo  fino  al  18  luglio   2009
(considerata  l'interruzione  al  18  luglio  2014)  il  diritto   al
risarcimento incorre nella prescrizione quinquennale (eccepita in via
subordinata dall'Avvocatura resistente), mentre rimane  vivo  per  il
periodo successivo, e quindi dal 2008 fino al 2012. 
    Il ricorso e' dunque ammissibile e procedibile, per  gli  aspetti
considerati;  sussistono   inoltre   gli   ulteriori   requisiti   di
ammissibilita'  della  domanda  risarcitoria,  avendo  il  ricorrente
provato (e comunque non essendo stato contestato) che per il  periodo
indicato egli non ha potuto  lavorare,  che  tale  impossibilita'  e'
stata causata dalla preclusione di cui si e' detto, che  e'  stato  a
carico dell'assistenza pubblica;  egli  ha  inoltre  quantificato  il
danno subito, la cui determinazione costituira' oggetto del giudizio. 
Il merito del ricorso 
    Sussistendo quindi le condizioni  e  i  presupposti  dell'azione,
puo'  passarsi  all'esame  del  merito  del   ricorso,   che   sconta
inevitabilmente l'indagine circa la legittimita' o  meno  dell'azione
amministrativa, funzionale alla verifica sia del nesso di  causalita'
con  il  danno,  sia  della  ingiustizia  del  comportamento  lesivo,
presupposti dell'obbligo di risarcimento. 
    Il Ministero dell'interno, su precisa richiesta della Questura di
Trento, che rappresentava come «non si rinviene alcuna normativa  che
disciplini» il titolo di soggiorno per l'acquisto della  cittadinanza
italiana iure sanguinis «relativamente allo svolgimento di  attivita'
lavorativa da parte dei titolari e che i  tempi  per  la  concessione
della  cittadinanza  si  sono  notevolmente  allungati»,  e  chiedeva
conseguentemente se il permesso in argomento consenta lo  svolgimento
di tali attivita', ha risposto nel senso che l'art.  14  del  decreto
del Presidente della Repubblica n. 394 del 1999, «nel disciplinare le
ipotesi di conversione del permesso di soggiorno da altra tipologia a
quella per lavoro, non  contempla  quello  per  attesa  cittadinanza.
Pertanto, per poter autorizzare i cittadini di  origine  italiana  in
possesso di tale  tipologia  di  permesso  di  soggiorno  a  svolgere
attivita'  lavorativa  sara'  necessario   attendere   una   modifica
normativa in tal senso». 
    La risposta fornita  dalla  nota  ministeriale  corrisponde  alla
legislazione vigente. 
    I titoli di permesso di soggiorno indicati dalla legge  (art.  6,
decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, T.U.  Immigrazione,  art.
11 del relativo regolamento) consentono lo svolgimento  di  attivita'
lavorativa se espressamente rilasciati a tale scopo, ovvero se  cosi'
prevede la legge. Ad esempio, l'art. 6 T.U. specifica che il permesso
rilasciato per motivi di lavoro e familiari  puo'  essere  utilizzato
«anche per le altre  attivita'  consentite»,  quello  rilasciato  per
motivi di studio e formazione puo' essere convertito,  a  determinate
condizioni, in permesso di soggiorno per lavoro.  L'art.  14  decreto
del Presidente della Repubblica n. 394 del  1999  prevede  specifiche
ipotesi di conversione o estensione  per  tipologie  di  permessi  di
soggiorno  (da  lavoro  subordinato  a  lavoro  autonomo;  da  lavoro
autonomo a lavoro subordinato;  il  ricongiungimento  familiare,  per
motivi umanitari, per integrazione  dei  minori  consente  il  lavoro
autonomo o subordinato; il permesso per lavoro autonomo o subordinato
e per motivi di famiglia e' convertibile in  permesso  per  residenza
elettiva a favore dello straniero  che  percepisca  una  pensione  in
Italia; quello per motivi di studio o formazione consente  il  lavoro
subordinato e puo' essere convertito nel relativo permesso). 
    Nessuna delle specifiche disposizioni dedicate  all'ambito  delle
attivita' consentite dai vari tipi di permesso di  soggiorno,  ovvero
convertibili  in  una  diversa  fattispecie  che  consenta  attivita'
lavorativa, si occupa del permesso per attesa  cittadinanza  italiana
iure sanguinis di cui alla legge n. 379 del 2000, come ha rilevato il
Ministero  con  la  nota  del  12  settembre  2007,  recepita   dalla
provincia. Ne', d'altra parte, e' possibile colmare tale  aporia  del
sistema  ricorrendo  allo  strumento   dell'analogia:   il   collegio
condivide quanto ha puntualizzato il Consiglio di Stato (sez. III, 12
ottobre 2017, n. 4738), secondo cui l'ordinamento giuridico  italiano
non conosce alcun principio di generale convertibilita'  delle  varie
tipologie di titolo di soggiorno, che va considerata  piuttosto  come
eccezione alla  regola,  applicabile  nei  soli  casi  tassativamente
previsti,  che  costituiscono  un  numero  chiuso.  E  d'altra  parte
l'applicazione dell'analogia nella determinazione  dello  status  dei
cittadini extracomunitari si  risolverebbe  in  una  innovazione  del
sistema, non consentita al giudice (Corte costituzionale, sentenza 12
dicembre 2014, n. 277). 
    Si deve quindi concludere che il diniego  opposto  al  ricorrente
corrisponde allo schema legale, poiche' non si rinviene  nel  sistema
alcuna norma che consenta lo svolgimento di attivita'  lavorativa  ai
soggetti in attesa di cittadinanza iure sanguinis. 
La questione di legittimita' costituzionale. 
    Il collegio dubita della corrispondenza  di  tale  schema  legale
alle norme costituzionali. 
    I) Occorre innanzi tutto considerare che, in generale, per coloro
che attendono  il  rilascio  della  cittadinanza  il  problema  della
convertibilita' del relativo permesso non si pone: l'art. 11 comma  1
lett. c) decreto del Presidente della Repubblica n. 394 del  1999  ne
prevede il rilascio, per la durata del procedimento  di  concessione,
«a favore dello straniero gia' in possesso del permesso di  soggiorno
per altri motivi». Cio' significa che,  costituendo  tale  diverso  e
gia' posseduto permesso di soggiorno presupposto imprescindibile  per
ottenere quello per attesa  di  cittadinanza,  il  problema  (che  in
questa sede non rileva) si sposta, semmai, sulla  convertibilita'  di
tale diverso permesso, ovvero sull'ambito delle attivita'  consentite
da tale diverso permesso. 
    Altro e' il  caso  dei  soggetti  che,  come  il  ricorrente  (la
circostanza e' provata e non contestata), sono discendenti di persone
nate e gia' residenti nei territori che sono  appartenuti  all'Impero
austro-ungarico prima del 16 luglio  1920,  emigrate  all'estero:  ad
essi si applica  la  normativa  speciale  contenuta  nella  legge  14
dicembre 2000,  n.  379,  che,  all'art.  1  comma  2,  riconosce  la
cittadinanza  italiana,  senza  subordinare  tale  riconoscimento  al
possesso di un diverso titolo di soggiorno. Ecco che allora viene  in
rilievo la convertibilita' dello speciale permesso, o l'ampiezza  dei
diritti e delle facolta' collegate al possesso di  tale  specifico  e
speciale permesso di soggiorno per attesa di cittadinanza,  che,  non
essendo collegato ad alcun altro, diverso, titolo, e  non  prevedendo
l'autorizzazione all'attivita' lavorativa, ne preclude, in forza  del
principio di tassativita' sopra delineato, lo  svolgimento,  come  ha
giustamente rilevato il Ministero dell'interno. 
    Tale  diversita'  di  trattamento  tra   soggetti   in   identica
situazione, rappresentata dall'aver proposto domanda di  cittadinanza
e di essere in attesa della risposta, gli uni  gia'  in  possesso  di
altro permesso di soggiorno, potenzialmente convertibile, e gli altri
sforniti di qualsiasi titolo  che  li  abiliti  allo  svolgimento  di
attivita' lavorativa, e' tale da far dubitare della rispondenza dello
schema normativo all'art. 3 della Costituzione. 
    E' appena il caso di sottolineare che  non  si  tratta,  qui,  di
evocare o di postulare una soluzione creativa, in una materia,  quale
quella della regolamentazione dell'ingresso  e  del  soggiorno  dello
straniero nel territorio nazionale, nella quale pacificamente  spetta
al legislatore ampia discrezionalita',  come  nel  caso  esaminato  e
risolto dalla sentenza della Corte costituzionale 12  dicembre  2014,
n. 277. Qui e ora,  invece,  si  tratta  di  denunciare  il  diverso,
immotivato trattamento riservato dal  legislatore  a  due  situazioni
analoghe, ambedue tutelate  attraverso  il  permesso  in  attesa  del
rilascio della cittadinanza, ma con un ambito di facolta'  e  diritti
del tutto divergenti, in assenza di ragioni  giustificativa,  sicche'
la riconduzione ai parametri costituzionali, se postula una pronuncia
additiva da parte  della  Corte  costituzionale,  dovrebbe  ritenersi
consentita dal momento che la soluzione e' logicamente necessitata ed
implicita  nello  stesso  contesto  normativo  (cfr.,  ex   plurimis,
sentenza 9 ottobre 2013, n. 279). 
    II)  Il  sistema  emergente  dalla  diversita'   di   trattamento
normativo si presta anche a dubbi di irragionevolezza, dato che  alla
situazione che il legislatore ha ritenuto evidentemente meritevole di
speciale  considerazione,  quale  quella  dei  discendenti  degli  ex
appartenenti all'Impero austro-ungarico emigrati all'estero, ai quali
la cittadinanza e' concessa su semplice  dichiarazione,  rispetto  ai
casi generali, nei quali e'  richiesto  il  possesso  di  un  diverso
permesso  di  soggiorno,  e'  collegato  un  effetto  deteriore,  che
consegna il richiedente all'impossibilita' di lavorare. 
    III)  Il  dubbio  di  legittimita'  costituzionale  non  e',   in
conclusione, manifestamente infondato; esso e' inoltre  rilevante  al
fine  della  decisione  del  ricorso  in  esame,  alla   luce   delle
considerazioni che precedono; 
    Esso investe l'art. 1 della legge n. 379  del  2000  e  l'art.  6
decreto legislativo n. 286 del 1998 nella parte in cui non  prevedono
l'utilizzazione dello speciale permesso per attesa di cittadinanza ai
fini  dello  svolgimento  di  attivita'  lavorativa,  per  violazione
dell'art. 3 della Costituzione e del principio di ragionevolezza che,
quale che ne sia la sedes materiae, permea di se'  tutto  il  sistema
costituzionale. 
    Occorre quindi sospendere il giudizio, rinviando  ogni  ulteriore
statuizione  in  rito,  nel  merito  e  sulle  spese  alla  decisione
definitiva, e disporre l'invio degli atti alla Corte costituzionale.